Commento di Gabriella Panzera
È arrivata su Sky la quarta stagione di “In treatment”: cinque settimane, tre pazienti e da ultimo lei, la terapeuta, donna e di colore interpretata in modo mirabile da Uzu Aduba, che apre il sipario sulle pieghe più intime della sua vita privata.
Brooke Taylor è una stimata e benestante terapeuta sui 40 anni che vive da sola in una grande casa a Los Angeles, donna abitata da un passato doloroso e un presente complicato, segnato dall’alcool, dalla solitudine e dalla recente perdita del padre con cui aveva un rapporto complesso e difficile.
Molto è cambiato dalle prime versioni di In treatment, con il compassato ancorché fascinoso Dr. Paul Weston o il Dr. Mari (Sergio Castellitto) nella versione italiana. Siamo in tempi di pandemia, alcune sedute si svolgono da remoto, lo studio della dottoressa Brooke si è trasferito temporaneamente in casa e, attraverso il racconto e le emozioni dei pazienti, emergono le problematiche più attuali e cocenti: il black lives matter, la situazione delle persone di colore negli stati uniti, la discriminazione LGBT, il gap economico fra classi sociali diverse, l’arroganza di una finanza “bianca” e truffaldina.
Il primo paziente che compare sulla scena è Eladio, un giovane sudamericano che lavora come badante per un disabile giovane e ricco, poi ci sarà Colin che ha appena scontato un periodo in carcere per truffe finanziarie e infine Laila, giovane adolescente di colore alla disperata ricerca di una sua identità, personale e sessuale, persa in un mondo violento a cui non riesce a dare senso se non attraverso la fuga.
E poi c’è la dottoressa Taylor con la sua vecchia amica Rita, che le ha fatto da sponsor per uscire dal dramma dell’alcool, nel quale pare essere ricaduta, e il vecchio e incerto fidanzato, ma ci sono soprattutto le parole, le emozioni e i pensieri dei pazienti e della terapeuta, con i suoi interventi acuti, profondi e coinvolgenti.
Potremmo dire che la dottoressa Brooke a volte perde di vista il confine fra sé e il paziente?
Si potrebbe dire di sì, ma via via che le puntate e i racconti si snodano attraverso le settimane ci accorgiamo quanto questo confine sia comunque per tutti noi, terapeuti di qualsiasi formazione e esperienza, sottile e costantemente permeabile, e quanto possiamo arricchirci e rendere la nostra relazione con i pazienti sempre più profonda se ne siamo consapevoli e siamo in grado di camminare sul bordo di questo confine senza paura.
In treatment mi ha coinvolto poco a poco.
Inizialmente ho sentito l’ambiente e la sceneggiatura distante dal clichè abituale di come raccontiamo le nostre sedute, dicendomi “No… è troppo americana”.
Mi sono avvicinata alla mente e alla forte e contradditoria personalità della dottoressa Brooke con una certa prevenzione, troppo calcata forse nel suo personaggio, troppo fuori dagli schemi di un terapeuta saggio e comprensivo, ma sempre più sono stata coinvolta nei suoi sentimenti sia come persona che come terapeuta.
Ho apprezzato il suo coraggio nel mettersi a nudo, la sua lucidità nell’affrontare problemi sociali così emergenti, nel calarsi nelle vite dei suoi pazienti a loro volta calati nel mondo esterno, nell’ammettere i suoi dubbi ed errori, nel non aver paura di disvelarsi, come direbbe il nostro amato Yalom
Brava dottoressa Taylor Brooke, così piena di errori e tormenti, dolente ma vitale, credo che vorrei anch’io fare qualche seduta con lei…
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