Pietro Roberto Goisis
2021, Enrico Damiani Editore
Una stanza, due persone. Intrecci di pensieri ed emozioni che, incontrandosi, costruiscono insieme la cura. Questo, e tanto altro, è ciò che avviene nella stanza di analisi. Luogo dello spazio e della mente da sempre misterioso e imperscrutabile, di cui si può parlare e scrivere per ore, mesi, anni, ma che solo quelle due persone lì presenti nella stanza in quel momento lì possono realmente conoscere. In molti provano a scriverne e raccontarne, ma leggendo e ascoltando permane spesso la sensazione di non poterne realmente assaporare le sensazioni, i suoni, i colori, gli odori.
Pietro Roberto Goisis ha provato a offrirci qualcosa di nuovo, coraggioso, diverso: per la prima volta sembra davvero di poter entrare nella stanza, grazie alla sua straordinaria capacità di mettersi nei panni delle persone che la hanno abitata insieme a lui, raccontandola dal loro punto di vista, e intrecciando queste pagine al sincero e umano racconto della sua stessa esperienza come analista e come uomo. Un continuo cambio di prospettiva e di io narrante da un capitolo al successivo, un viaggio da dentro a fuori e viceversa, dall’uno all’altro, proprio come avviene nel cuore e nella testa dell’analista durante l’ascolto delle persone che incontra.
Un viaggio sui temi della stanza, del setting interno, dell'adolescenza, del cambiamento, dei limiti e delle umane difficoltà, della vita e della morte. Accompagnato dal racconto di alcune delle tappe importanti della vita dell'analista: le prime stanze abitate, l’analisi, il training, lo sport, la famiglia, l’amicizia, la conquistata apertura al cambiamento e all’innovazione all’interno del setting psicoanalitico. Il tutto fortemente intrecciato, così come sempre succede nella vita di noi terapeuti, a stralci di percorsi condivisi con i compagni di viaggio più diversi: adolescenti, adulti, famiglie, scuole.
Un libro, quasi una sceneggiatura teatrale, affascinante e arricchente per chiunque sia interessato a conoscere meglio il mondo misterioso e avvincente della stanza di analisi: da chi l’ha abitata in passato o la abita ancora, a chi non ha mai pensato di farlo, a chi vorrebbe ma non ci si è ancora avvicinato, agli “addetti ai lavori”.
Mi piace usare una metafora relativa a un linguaggio che mi è molto vicino, quello musicale: leggendo questo libro risuonano nelle mie orecchie le meravigliose fughe del Clavicembalo Ben Temperato di Bach. Le fughe, ognuna successiva al suo preludio, rappresentano l'elemento dinamico della raccolta bachiana e sono l'esito della strabiliante capacità inventiva di Bach su uno stesso soggetto, che viene caleidoscopicamente riproposto passando dalle figure più semplici a quelle più complesse. Si tratta di un gioco polifonico molto complesso che all'ascolto risulta magico: ogni nota è esattamente al suo posto. Come la raccolta bachiana, questo libro raccoglie le voci, le emozioni e i sogni di tante persone. Nella mia fantasia ognuna è un suono e, come succede nelle orchestre, mentre l’orchestra è impegnata nel compito del fare musica, la musica stessa fa l’orchestra: i suoni corali delle voci creano e arricchiscono l’esperienza del gruppo, della stanza dentro la quale abbiamo davvero la sensazione di poter fare capolino. Proprio come le fughe di Bach, la stanza dei sogni è composta da un groviglio di voci che si rincorrono, talvolta proponendo richiami ed echi melodici, altre volte introducendo controcanti differenti sovrapposti o sottostanti, sperimentando incastri, simmetrie, asimmetrie capaci di generare un insieme armonico.
In queste pagine Pietro Roberto Goisis si racconta generosamente confermando la curiosità, la libertà e il coraggio di accogliere il cambiamento di cui è capace. Un analista fermo, saldo e sincero che è in grado di svelarsi con grande umiltà e sperimentare nuovi orizzonti psicoanalitici quando la situazione e la relazione lo richiedono.Tutte cose che posso confermare con forte convinzione, avendo avuto il privilegio di poter abitare quella stanza dei sogni.
(testo di Cecilia Ferrari)
Marianna Balducci e Angelo Mozzillo
2020, Bacchilega Editore
Questo libro è l’albo illustrato che ha vinto il Premio Andersen 2021 come miglior libro nella categoria 0/6 anni con la seguente motivazione: “Per la profonda delicatezza con cui gli autori hanno dato vita a un insolito e felice progetto editoriale. Per la precisione e la delicatezza con la quale raccontano gli stati d’animo, spesso confusi e contrastanti, che i piccoli attraversano. Per tavole raffinate e brillanti che coniugano trepida grazia e lieve ironia.”
Forme, posizioni, movimenti, coperture, aggrovigliamenti, increspature, morbidezze, volteggi, fratture, distanze, vicinanze... questo e tanto altro è presente all’interno del delicato libro “Io sono foglia” che evidenzia con leggerezza la complessa relazione fra noi stessi e gli stati d’animo da cui siamo attraversati. Complice la capacità evocativa delle immagini, accompagnate da brevi parti di testo, che conducono il lettore nelle sfumature della vita affettiva.
A partire dall’osservare la bellezza cromatica, variegata e multiforme delle foglie autunnali un invito a lasciarsi sorprendere dalla ricchezza del mondo emotivo del bambino fuori e dentro di noi e a non dimenticare l’importanza del prendersi cura: responsabilità che sostiene nutre e tiene vivo noi e l’altro.
Cecilia Ferrari
2019, Albatros
Cecilia Ferrari è una giovane collega di cui ho apprezzato nel corso del tempo il pensiero complesso quel tanto da permetterle di addentrarsi con coscienza nei meandri difficili delle tessiture relazionali, che sono alla base e sostengono il senso del lavoro psicoanalitico: meandri che, quando se ne intravede il percorso corretto, offrono una occasione di intimità profonda fra esseri umani (per il paziente e anche per l’analista) che davvero solo nella stanza d’analisi, come forse neanche nella nostre storie d’amore adulte, può ripetersi con quella intensità e senso di affidamento innocente che abbiamo potuto provare tra le braccia dei nostri genitori quando eravamo bambini.
I suoi ottonari in forma di filastrocche, ben lungi dall’essere solo intrattenimento, evocano e ribadiscono quello che dovrebbe essere il compito elettivo di una relazionalità profonda, quella che ci serve come strumento di una buona clinica: andare là dove ci sono sentimenti di paura, confusione, angoscia, smarrimento/ dissoluzione del senso di sé, e confortarli con la sensibilità amichevole e solidale di una parola che ha imparato a farsi davvero vicina e a stare tutto il tempo che serve accanto alla sofferenza. Questo significa - e chiamiamola come vogliamo, arte, tecnica: più semplicemente e verosimilmente, umanità – imparare a toccare con le parole. “Toccare”, arrivare con le parole al cuore, è l’assunto originario d’amore che sollecita negli esseri umani il bisogno di relazione: quando nasciamo, il diventare figli, sentire che si è il frutto di una generatività voluta (almeno per un po’ di tempo, quel tanto sufficiente per non diventare psicotici…), passa attraverso un accudimento psichico che è fatto anche di parole, non solo di corpo: o meglio, di parole che sono anche corpo, cioè incarnate.
La fiaba, la filastrocca, che in questa funzione accuditiva della parola immaginiamo raccontata con la voce lieve e rassicurante di una mamma o di un papà, alla sera, al momento del sonno del proprio bambino, hanno questa funzione di arrivare all’altro con questa qualità psicocorporea. E non diversamente dovrebbe essere la cura psicoanalitica: parimenti andare nelle stanze buie che sono nel cuore dei nostri pazienti a illuminare, per come possiamo, ciò che non possono ancora vedere dentro di sé e da cui sono spaventati. La funzione metaforica della fiaba è proprio quella di “portare fuori” (meta/fora), attraverso spostamenti immaginativi e semantici, contenuti che nella loro evidenza troppo visibile possono non essere tollerabili e quindi indurre alla chiusura. Le fiabe e le filastrocche ci servono per andare nella stanza del “bambino” (che permane nel cuore dei pazienti e di tutti noi via via che incontriamo la vita), per mettere un po' di luce a rischiarare il buio di presenze sconosciute che spaventano e perseguitano. Filastrocche e clinica, un connubio in apparenza impossibile: eppure, se ci pensiamo, la parola “clinica” ha una derivazione etimologica che noi clinici dovremmo più spesso ricordare per non farci prendere la mano da un certo facile interpretativismo, una certa diagnostica indiscriminata…: “clinica” deriva dal greco kline, letto, come a suggerire che per curare veramente bisogna stare accanto al giaciglio dove il paziente si è coricato. Bisogna inclinarsi verso di lui e ascoltare dalla sua bocca ciò che lo fa soffrire, e che tocca a noi raccogliere, contenere dentro e farlo diventare come se fosse un soffrire anche nostro: insomma sentirlo e pensarlo.
Nella fiaba raccontata da un genitore a un bambino per accompagnarlo ad affrontare le figure del suo piccolo inconscio, nelle filastrocche di Cecilia Ferrari che ci ricordano anche da adulti quanto quel linguaggio apparentemente evasivo in realtà ci chieda di stare nel nostro “dentro” per diventarne confidenti, troviamo le sembianze di quella parola originaria, gentile, partecipata, accudente dove risiede il vero fattore terapeutico: una parola che “tocca” e non spiega, una parola che non indica come il mondo dovrebbe essere o non essere. Una parola che evoca, al limite suggerisce, e che sempre accompagna e soprattutto non lascia mai soli.
(Testo di Sergio Perri)
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